E così Sergio, marinaio del vento, dopo appena un anno ci offre il
secondo libro del suo personalissimo giornale di bordo: a Due odi
e un amore segue Tre stagioni e un contagio.
I due libri sono strettamente legati, oltre che dai titoli speculari,
dalla loro singolarissima struttura: in entrambi, infatti, fulminanti
aforismi (rispettivamente 30 e 24, che l’editore accompagna con
indovinatissimi disegni) introducono alternativamente un testo in
versi e uno in prosa. Dal punto di vista metrico, Sergio predilige
una forma rara e desueta come la cosiddetta sestina narrativa
(di endecasillabi a schema ABABCC), esclusiva in Due odi e un
amore con la sola eccezione di un sonetto elisabettiano (Via Marconi),
nella quale la disinvoltura ritmica si accompagna alla divertita
facilità e alla spumeggiante inventiva nel gioco delle rime (a
puro titolo di esempio pornostar : bar, autostop : top, Camaguey
: 2006, pecunia : Corunha...) In Tre stagioni e un contagio la sestina
è ancora prevalente ma con alcune eccezioni che ci dicono
non poco sulle letture (francesi) dell’autore: gli alessandrini a
rima baciata di Era d’estate e di Retorica, i versi liberi fortemente
ritmati dalle anafore di Plagio e un testo al confine fra versi e
prosa, anch’esso impostato sull’anafora, come Invettiva. Il lettore
non interpreti tuttavia troppo rigidamente l’opposizione verso/
prosa: i testi in versi hanno quasi sempre un andamento narrativo
(la sestina è appunto detta non a caso narrativa), mentre non
di rado una prosa si configura (ancora le letture francesi) come
un vero e proprio petit poème en prose (penso esemplarmente
all’intenso lirismo di Non quaesivi sed inveni, nel primo libro).
Ma non si tratta, beninteso, soltanto di continuità formale: e qui
dobbiamo giocoforza rifarci ancora una volta, prima di giungere
al libro che il lettore ha fra le mani, a Due odi e un amore. A parte
la voluta ambiguità di odi (che potrebbe anche significare ‘canti’
– ode è appunto, in greco, il ‘canto’ – con allusione alle per la verità
non due, non ‘poche’ poesie), non è difficile individuare i due
odii dell’autore: il conformismo e la stanzialità; e lo è ancor meno
riconoscere, all’opposto, l’amore: la libertà (senza dimenticare, tuttavia,
la donna di Non quaesivi sed inveni: «Ti incontrai vicino a
una culla nel giorno più breve che durò una vita»). Sergio si autodefinisce
marinaio del vento; e il suo Baudelaire aveva scritto non
casualmente: «Homme libre, toujours tu chériras la mer! / La mer
est ton miroir; tu contemples ton âme / Dans le déroulement infini
de sa lame, / Et ton esprit n’est pas un gouffre moins amer». Non
casualmente, inoltre, l’enunciazione del tema portante è affidato
alle sestine di Dove il vento è re, nelle quali la posta in gioco è la
più alta possibile: il senso stesso della vita, dono inesplicabile e
«discutibile» di non si sa chi, crudelmente consumato dal «correre
celere degli anni» («Le Temps mange la vie», scrive ancora Baudelaire).
Allora, di fronte alla beata inconsapevolezza di una vita
appiattita nel conformismo, emblematicamente rappresentata dallo
spingere le «carrozzelle» dei figli, non restano che la leggerezza
dello scherzo («celie e marachelle») e l’inseguimento dei «piaceri
»; non restano, soprattutto, che il viaggio e le «avventure [...] /
vissute ai quattro punti cardinali». L’aforisma che introduce il testo
è illuminante: «L’avventura è forse la sintesi della vita e la poesia
la sintesi dell’avventura». Dunque la vita trova (forse) un senso
nell’avventura e l’avventura lo trova nella poesia che la cristallizza,
che la sottrae alla consunzione del Tempo. Ed ecco allora – nel
giornale di bordo, fatto di poesia, del marinaio del vento – l’album
dei ricordi e dei ritratti, che propone ora eventi o personaggi con lo
stigma della singolarità (Diumadona, Pagode d’amore), ora immagini
di spento conformismo (Chic, Uffina, la conclusiva A egregie
cose, dal titolo ironicamente foscoliano) alle quali si contrappone il
vitalismo delle numerose avventure galanti degli accompagnatori
turistici in giro per il mondo, affidate sempre alle sestine (Remore,
Mangime, Cubo, Vento dell’est, Petra, Air Cairo, Troppa grazia),
e quello, diremmo hemingwayano, della corrida in due bellissime
prose come Of men and mouses e soprattutto Il coraggio: «il torero
sentì solo il boato della gioia, il ringraziamento al coraggio della
pulcritudine assoluta, la bellezza che respinge ogni aggettivo».
Tre stagioni e un contagio è un titolo chiaramente e volutamente
isomorfo a quello di Due odi e un amore, che però, a differenza
di esso, trova puntuali riscontri nel testo: le ‘tre stagioni’ rinviano
a tre testi in sestine che si susseguono, alternati agli aforismi e
alle prose (Era d’estate, Era d’autunno, Era d’inverno); mentre il
‘contagio’ rinvia al testo omonimo, che ci porta alla più bruciante
attualità. E tuttavia, nella visione di Sergio, il contagio non è quello
del Covid-19 ma «quello vero, quello del terrore e della rassegnazione
». Cosicché la primavera mancante alla suite semieponima
del libro sarà proprio (come si legge in due diverse prose) la «primavera
rapinata», la «primavera scippata» di questo 2020. Nel
segno della poesia ‘civile’ si apriva già del resto, con l’aforisma
«Democrazia: facoltà concessa al pollame di scegliersi la faina da
mettere di guardia» e con le sestine di Democrazia, il primo libro;
ma nel secondo la pandemìa dà origine a numerosi testi che occupano
non poca parte di esso culminando nella violenta Invettiva
già ricordata. Sergio si schiera così su una delle posizioni più
estreme generate dalla straordinaria, inattesa, drammatica vicissitudine
planetaria che abbiamo vissuto e che ancora viviamo: ma la
sua posizione – che la si possa condividere o meno: e chi scrive,
per esempio, non la condivide – appare perfettamente coerente
con la sua visione della vita. Scriveva Giovenale che «summum
nefas» è «propter vitam vivendi perdere causas»: la più grande
nefandezza è, per conservare la vita, perdere le ragioni che ci
spingono a vivere. E per Sergio, lo sappiamo bene, il valore supremo
(anzi Il bene supremo, giusta il testo omonimo di questo libro)
è proprio la libertà: una libertà che non può tollerare la benché
minima limitazione e che è molto più preziosa della vita stessa.
Prima ancora che politiche, dunque, le ragioni dell’invettiva contro
il contagio del terrore sono esistenziali e filosofiche; e, al di là
dell’attuale, drammatica congiuntura (comunque la si voglia vedere)
della pandemìa, ci riportano alle ragioni stesse della scrittura
del marinaio del vento (del «vento della libertà», naturalmente,
come si legge a emblematico sigillo di Hodoiporia). La questione
è sempre il senso, o un possibile senso, dell’esistenza. La libertà
è per Sergio, si diceva, il bene supremo: libertà di pensiero, libertà
dunque da ogni dogmatismo (la polemica antireligiosa percorre
entrambi i libri), libertà da ogni conformismo, libertà da ogni possibile
prigionìa, viaggio inesausto per il mondo. Insomma, l’avventura
orgogliosa e anarchica di Rimbaud, «l’homme aux semelles de
vent» non a caso esplicitamente evocato da una prosa dal titolo
emblematico di Altrove, nel primo libro. Ora, nella medesima prosa
si legge, a proposito della anonima protagonista di essa: «Non è la
calamita dell’ignoto ad attrarla ma il terrore del noto a sospingerla
». E qui il rinvio non è più al ragazzo di Charleville ma a Baudelaire,
che nel suo Voyage, posto che il mondo si rivela al viaggiatore
«monotone et petit, aujourd’hui, / Hier, demain, toujours», invita, a
conclusione del suo grande libro, a tuffarsi «Au fond de l’Inconnu
pour trouver du nouveau!»
Sergio è sospinto dal terrore del noto o attratto dalla calamita dell’ignoto?
L’amore appassionato della libertà può davvero liberarlo
dal «terrore del niente» evocato in un aforisma di questo libro?
Forse l’avventura e la poesia di cui parlavamo all’inizio non possono
costituire un senso per la vita, ma costituiscono certamente la
ricerca – destinata peraltro, forse, a non raggiungere mai la mèta
– di esso. Vivere non è necessario, è necessario navigare (e potremmo
forse aggiungere: vivere non è necessario, è necessario
scrivere): ma, forse, navigare (e scrivere) è necessario proprio per
cercare un senso al nostro vivere.
E dunque buon viaggio, caro Sergio, marinaio del vento! Possano
continuare a lungo, fino alla mèta ignota, la tua avventura e la tua
poesia.
Paolo Zoboli