
ANCORA QUASI UNA PREFAZIONE
E il viaggio del marinaio poeta del vento continua: dopo Due odi e un amore (giugno 2019) e dopo Tre stagioni e un contagio (settembre 2020) ecco, in crescente progressione numerica, Quattro fedi e una vera. Più che di tre libri, si tratta di tre parti dello stesso libro, di un libro in divenire che certo non è ancora concluso, come non è ancora concluso il viaggio poetico di cui esso costituisce – dicevamo con continuata metafora marinaresca – il ‘giornale di bordo’.
Il candido lettore troverà dunque in questo la medesima struttura dei due libri precedenti, la pulsazione ritmica aforisma - poesia - aforisma - prosa; resterà fulminato dai taglienti aforismi; godrà dello scanzonato e ironico e serio e malinconico andamento narrativo delle sestine (narrative, appunto: un’ottava ariostesca decapitata dei primi due versi), del fantasioso e divertito e divertente gioco delle rime; resterà conquistato, all’opposto, dall’intensità lirica delle prose, quasi sempre veri e proprî petits poèmes en prose.
E i temi? Relativamente passata l’urgenza della pandemìa e delle restrizioni per essa imposte – tema che comprensibilmente, date alla mano, aveva fatto prepotente irruzione nel secondo libro, occupandone parte considerevole, e che qui ancora fa qua e là capolino con forza – la poesia del marinaio del vento lascia un poco da parte lo sdegno e la passione civile (ma non quell’appassionato desiderio di libertà che è suo elemento sostanziale) per tornare a farsi principalmente, attraverso il caleidoscopio della memoria e il trascolorare degli orizzonti per le strade del mondo, meditazione sull’esistenza: sulla fuggevole bellezza di essa (e qui andrà ricordato che, a fronte della corrida dei libri precedenti, è in due occasioni il gioco del calcio a farsi emblema di quella bellezza: in 13 novembre, dove una partita è trasfigurata in un’esaltante battaglia delle Termopili, e nel commosso epicedio di Maradona Il terzo giorno risorse); e meditazione sulla angosciosa vanità di essa, meditazione affidata quasi in conclusione anche a una poesia (Crepuscolo) che, abbandonata la narratività della sestina, si affida a più liriche quartine per i suoi accenti dolorosi nei quali ritorna, non casualmente, il ricordo dell’amato Baudelaire («Le Temps mange la vie»):
a ripetere quel niente quotidiano
e a reiterare parole già fuggite
mentre il tempo che è l’unico sovrano
ingoia quel poco che son le nostre vite.
Non è questa tuttavia l’ultima parola di questo terzo libro, ma soltanto la penultima. L’ultima è proprio quella delle ultime righe dell’ultima prosa, che sigillano Quattro fedi e una vera nel segno di una dolente e ferma accettazione – di un sabiano «doloroso amore» – della vita:
In cabina saldavano amicizia due ragazzi di buona volontà, in attesa che il destino li indirizzasse ciascuno al proprio compimento.
Ecco: l’«amicizia» – emblematica quanto più non si potrebbe, crediamo, della condizione ideale dell’uomo secondo Sergio – di «due ragazzi di buona volontà» che guardano senza infingimenti al «destino» nella lucida consapevolezza del necessario «compimento».
Ma intanto il viaggio del marinaio poeta del vento continua.
Paolo Zoboli